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Francis Durbridge e la RAI - Poco a poco

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Analisi di un fenomeno in una televisione che non c'è più

di A. Scaglioni

11) "Poco a poco" (1980)

Dopo essere tornato tra i protagonisti del giallo televisivo Rai, tra l'autunno del 1976 e la fine del 1977, per ben tre volte nel giro di poco più di un anno, il nome di Francis Durbridge scomparve nuovamente per un lungo periodo. Quando infine riapparve, si era quasi alla fine del 1980 ed agli albori del nuovo decennio, e diverse cose erano cambiate. Innanzitutto da ormai tre anni, la Rai aveva iniziato ufficialmente le sue trasmissioni a colori, ma soprattutto per la prima volta nella sua storia, si stava delineando un vero competitor nel settore televisivo. Per quanto potessero essere fastidiose, le piccole emittenti locali private che trasmettevano quasi a ciclo continuo film su film spesso di pessima qualità, o quelle tre o quattro televisioni estere non ricevibili neanche su tutto il territorio nazionale, non avevano mai rappresentato per la Rai delle vere concorrenti sul piano dei grandi ascolti, ma adesso c'era Canale 5, la nuova tv privata, nata dalle ceneri di TeleMilano e proprietà dell'imprenditore rampante Silvio Berlusconi, a cui presto si sarebbero unite anche Italia 1 e Rete 4 per formare un gruppo di emittenti commerciali che, grazie ad una rete capillare di distribuzione dei loro programmi in tutta Italia, avrebbero creato non pochi grattacapi ai vertici della televisione di stato per molto tempo a venire.

Dopo quasi venticinque anni di assoluto monopolio, la Rai si trovava a doversi confrontare con avversari giovani ed agguerriti che sfornavano trasmissioni forse ancora un po' ingenue e dilettantesche, ma che minacciavano di crescere rapidamente e costituivano comunque per il pubblico italiano una costante ed intrigante "distrazione", con film spesso più recenti di quelli trasmessi dalla tv di stato, varietà che presentavano a ruota continua nuovi comici e splendide fanciulle dai costumi ridottissimi, e serie di telefilm e cartoons di grande impatto, che i vecchi dirigenti avevano a suo tempo trascurato o superficialmente ignorato giudicandoli inadatti al pubblico.

Occorreva quindi, per battere o quanto meno contenere la concorrenza, cambiare marcia, e la Rai cominciò subito a cercare di adeguarsi ai nuovi ritmi imposti, ribattendo colpo su colpo. Vennero aumentate le ore di trasmissione; il vecchio monoscopio, che riempiva lo schermo nelle lunghe ore di pausa mattutine e a volte anche pomeridiane negli anni felici del monopolio, finì ben presto per ritrovarsi relegato a poche ore del primo mattino, sempre più ridotte fino a scomparire del tutto; mentre i varietà, i quiz, i telefilm che erano sempre stati ad appannaggio del tardo pomeriggio o della prima serata, invadevano ogni ora da mezzogiorno fino a mezzanotte. Scomparsa la "TV dei ragazzi", quell'oretta scarsa di telefilm, documentari e cartoni animati che era ormai diventata un appuntamento fisso per bambini e ragazzi di almeno tre generazioni, lo spazio a loro dedicato si frammentava nel corso di tutta la giornata, dalla mattina al tardo pomeriggio, fino a volte al preserale, grazie a serie televisive di avventura o sitcoms americane, o ai nuovi anime giapponesi a base di robot giganti o di orfanelli strappalacrime, mandati in onda con cadenza quotidiana. E naturalmente film, film, film. Non più solo il lunedì e il mercoledì come era accaduto tradizionalmente fino ad allora, ma praticamente ogni sera su almeno una delle tre reti, quando non c'era un quiz di Mike Bongiorno (che però presto avrebbe fiutato da che parte tirava il vento e si sarebbe unito al gruppo Fininvest di Berlusconi), un varietà con la Carrà o la Cuccarini, o un qualche nuovo sceneggiato o originale televisivo, definizioni che stavano d'altronde cadendo in disuso in favore di un più moderno "film tv", a puntate o no che fosse.

E a questa ultima categoria era da ascrivere anche la nuova storia firmata Francis Furbridge che approdò infine sugli schermi italiani, dopo tre lunghi anni. Non è ben chiara la ragione per cui i vertici Rai decisero di ripescare quel nome, che non poteva che riaccendere memorie di un modo di fare tv che si riteneva appartenesse ormai al passato e alla vecchia Rai pre-riforma, in un momento in cui l'emittente di stato era invece alla ricerca di una sua nuova dimensione in un panorama televisivo in continua evoluzione. Così come resta tutto sommato un mistero perché, con tanti copioni televisivi scritti da Durbridge e ancora disponibili (come ad esempio il recentissimo "Breakaway", appena dell'anno prima, che avrebbe chiuso la sua carriera di autore televisivo), si fosse optato come soggetto per un dramma teatrale, il secondo messo in scena dallo scrittore inglese sei anni prima, nel 1974, "The Gentle Hook". Sta di fatto che nell'ultimo numero del 1979, (cioè quasi un anno prima dell'effettiva messa in onda) il Radiocorriere TV annunciava il ritorno di Durbridge sui nostri schermi, anche se senza più quella fanfara che avrebbe utilizzato solo una decina d'anni prima. Ormai il nome del "giallista contemporaneo più famoso della tv", come veniva definito, non smuoveva più l'interesse del grosso pubblico e sicuramente nessun giornalista si sarebbe dato da fare per scovare il nome del colpevole del suo nuovo giallo, magari telefonando a qualche collega d'oltremanica. D'altronde la trama originale fu talmente stravolta da rendere praticamente impossibile per qualunque reporter inglese individuare non solo il colpevole tra i personaggi, ma addirittura riconoscere la storia di Durbridge, che nell'adattamento italiano si sarebbe intitolata "Poco a poco".

L'azione si sarebbe spostata da Londra a Milano, mantenendo quindi l'abitudine ormai consolidata da qualche anno in Rai di ambientare le storie gialle sempre e comunque sul suolo italico, anche se traslocando dalle rive del golfo di Napoli alle sponde del Naviglio, e i personaggi e l'intrigo poliziesco attorno a cui ruotavano avrebbero avuto connotati del tutto meneghini. Il testo originale di Durbridge, come sempre tradotto da Franca Cancogni, era infatti stata considerato "troppo inglese", come scrisse l'adattatore Giuseppe D'Agata, nell'articolo a sua firma apparso sul Radiocorriere TV n. 49 del 1980. Da qui la decisione di prendere l'intera vicenda e, per parafrasare Manzoni, "risciacquarla nelle acque del Naviglio" rendendola meno "insopportabilmente falsa e posticcia" (sto sempre usando le parole di D'Agata).

Naturalmente tra le righe dell'articolo di Giuseppe D'Agata (che, ricordiamolo se ce ne fosse bisogno, resta sempre l'autore, insieme a Flaminio Bollini, di uno dei più indimenticabili ed affascinanti sceneggiati della vecchia Rai, "Il segno del comando"), si legge chiaramente quella che è l'impostazione dei nuovi vertici societari nei confronti del giallo, e dal loro punto di vista non c'è dubbio che D'Agata fece un "ottimo" lavoro, trasformando il plot originale (che raccontava la storia di Stacey Harrison, una giovane arredatrice londinese che, per proteggere il padre che teme coinvolto in un qualche misterioso traffico di opere d'arte false, si trova quasi inconsapevolmente nel mirino degli stessi trafficanti e invischiata in un delitto da cui il suo quasi ex-marito e un lungimirante ispettore di Scotland Yard faticheranno non poco per scagionarla) in una vicenda che sembra presa di peso da qualche romanzo di Scerbanenco, e non a caso, a dirigerla fu chiamato Alberto Sironi (futuro regista dei tanti Montalbano), che allora era un giovane della nuova scuola del giallo tv "neorealista", che solo l'anno prima aveva partecipato alla regia della serie di telefilm, "Quattro delitti", guarda caso, tratti da racconti dello scrittore milanese di origini ucraine. E quella di "Poco a poco" sembra proprio la Milano grigia e un po' squallida dei suoi romanzi ("Venere privata", "I milanesi ammazzano al sabato") da cui il cinema italiano ha spesso tratto ispirazione, come potrete giudicare da questo riassunto della trama.

Il commissario Mario Braschi è il classico poliziotto "controvoglia" che si è lasciato alle spalle una moglie ed una carriera e svolge il suo lavoro con coscienza ma senza passione. Trasferito da Roma per cause non ben specificate, si trova a percorrere le strade del capoluogo lombardo accanto all'agente De Rosa, il suo collaboratore ed autista, sempre preoccupato per le trattenute della busta paga. Il pestaggio misterioso di un coreografo della Scala, tale Rada, abbandonato poi svenuto fuori città, seguito il giorno dopo dall'aggressione alla giovane costumista sua assistente, l'italoamericana Annie Conti, che riesce a difendersi e ad accoltellare il suo assalitore, un pregiudicato di nome Gabetto, precipitano il commissario dalla sua routine giornaliera in un groviglio di cui è difficile trovare i capi. All'inizio, l'omosessualità del coreografo fa pensare che i responsabili vadano ricercati in quell'ambiente, ma Braschi non ne è convinto. Per lui le due aggressioni sono collegate, ma si scontra con il mondo chiuso e diffidente che ruota intorno al teatro milanese. Rada, ristabilitosi, continua a ribadire di non ricordare quasi nulla, mentre Annie afferma di non conoscere l'uomo che l'ha assalita. Braschi spera che lasciando fuggire Gabetto, che a sua volta si rifiuta di parlare, dall'ospedale in cui è ricoverato dopo l'accoltellamento, si potrà seguendolo vedere se contatterà quelli che l'hanno pagato. E la pista porterà i primi frutti, quando l'uomo cerca rifugio nella casa di un pittore, Domenico Gioia, detto Dominic. Questi infatti è scomparso da giorni ed ha incaricato prima di darsi alla macchia la sua ex-moglie Giovanna di recapitare un suo quadro proprio ad Annie Conti, la quale a sua volta lo ha portato al padre, Ferruccio Togliani, un vecchio insegnante d'arte che ora vive di espedienti e scommettendo alle corse e di cui Dominic era stato un allievo. Alla lista dei personaggi vanno poi aggiunti l'avvocato Conti, marito separato di Annie, ma forse ancora innamorato di lei, e Luciano, il giovane assistente di Rada, il cui ruolo nella vicenda potrebbe essere meno marginale di quanto sembri. Alla fine Braschi, che nel frattempo ha intrecciato una relazione con Annie, riuscirà a smascherare i responsabili di un giro di quadri d'autore falsi, ma non prima che ci sia scappato il morto...

Ed ecco gli interpreti: il commissario Braschi era Flavio Bucci; l'agente De Rosa era Diego Abatantuono, il "terrunciello" della commedia all'italiana di quegli anni, forse per la prima volta in un ruolo serio; Annie Conti era Teresa Ann Savoy, una starlet inglese assurta rapidamente alla notorietà in un cinema come il nostro fin troppo incline a dare visibilità a chiunque abbia un bel faccino e venga dall'estero, ma che qui mostra tutta la sua incapacità di recitare, e anche solo di parlare in un italiano passabile; e poi, in ordine sparso, Franco Fabrizi (Togliani), Renato Scarpa (Rada), Rino Cassano (Luciano), Giorgio Mauro (Gabetto), Italo Dall'Orto (l'avvocato Conti), Luciano Virgilio (Dominic), per finire con una menzione d'onore per Mariolina Bovo (Giovanna), un'attrice dalla recitazione semplice e pulita, che pur senza aver mai avuto ruoli di rilievo, ha attraversato tutta la storia degli sceneggiati e della fiction Rai quasi in silenzio ma con grande professionalità.

La colonna sonora, poi, curata da Paolo Conte, che è autore anche della sigla finale, "Uomo-camion", è inframmezzata da canzoni di cantautori milanesi, Jannaci e Celentano in testa, che fanno spesso da sottofondo ai dialoghi, contribuendo a sottolineare la "milanesità" che impregna tutta la storia.

"Poco a poco" andò in onda in tre puntate, ma contrariamente a "Dimenticare Lisa" e "Traffico d'armi nel golfo" non nell'arco di altrettanti sabati, ma in soli otto giorni, da domenica 30 Novembre a domenica 7 Dicembre, con la puntata di mezzo fissata per il venerdì 5. Inoltre venne programmato sulla Rete 2. Non accadeva più dal 1966, con "Melissa", che uno sceneggiato a puntate di Durbridge fosse mandato in onda su un canale diverso dal vecchio Programma Nazionale, ora Rete 1. Un ulteriore segnale di una disaffezione da parte della nuova dirigenza verso Durbridge? Forse, ma è difficile a dirsi, in quanto ora i canali Rai non erano più interscambiabili come una volta. Rispondevano a direzioni diverse, quindi questa non era necessariamente valutabile come una "retrocessione". Poteva darsi che l'idea di produrre il film tv fosse semplicemente nata e sviluppata tra la dirigenza della Rete 2.

Ma come venne accolto dal pubblico? Quanto agli ascolti, il Servizio Opinioni che tornò a fornire i dati proprio quell'anno, ci dice solo che "Poco a poco" non si piazzò in nessuna posizione della Top Ten dei programmi più seguiti, senza darci ulteriori informazioni a riguardo. Per quel che riguarda gli appassionati dei vecchi sceneggiati di Francis Durbridge, invece, posso immaginare con quanta perplessità dovettero seguire questa sua ultima opera. Anche se probabilmente nessuno a quell'epoca poteva rendersi conto di quanto poco del testo originale fosse rimasto nella sceneggiatura di Giuseppe D'Agata (malgrado i titoli di testa avvisassero che si trattava di un "libero adattamento"), ciò che deve averli colpiti soprattutto è l'assenza stessa dello spirito dell'autore nella storia. Durbridge era noto anche in Italia per l'abilità quasi da prestigiatore con cui riusciva a costruire complicati giochi di specchi in cui ogni dettaglio ne rimandava ad un altro in un'infinita sfilata di indizi contraddittori, rivelazioni spiazzanti, delitti e colpi di scena, i cosiddetti cliff-hangers, che solitamente chiudevano la puntata, lasciando gli spettatori confusi ma eccitati allo stesso tempo e col desiderio di risintonizzarsi la volta seguente per scoprire quali altri conigli il mago nascondesse nel suo cappello. Insomma, in ogni sua storia il suo stile era facilmente riconoscibile. Di tutto questo, in "Poco a poco", invece non c'era neanche l'ombra. La trama procedeva piatta e monotona, di cliff-hangers neanche a parlarne, gli eventi anche drammatici (il pestaggio del coreografo, l'aggressione alla costumista, l'assassinio che arriva solo all'ultima puntata) si snocciolavano davanti all'occhio annoiato dell'investigatore, quanto a quello che immagino semiaddormentato dello spettatore, senza un minimo di pathos, di partecipazione della macchina da presa, e diciamo la verità, anche quando l'assassino viene smascherato, unico momento concitato della storia, in realtà non ce ne frega più molto, tanto regia, sceneggiatura e montaggio sono riusciti a sopire ogni nostro più lieve interesse. Che certo non poteva essere sollecitato dall'introduzione nella storia della tematica omosessuale, peraltro utilizzata in senso abbastanza negativo, né tanto meno da quella ridicola e "posticcia" (concedetemi di utilizzare il termine usato proprio da D'Agata nel suo articolo) storiellina d'amore tra il commissario e la costumista, che il buon Durbridge non si sarebbe mai sognato di inserire in una sua storia neanche se si fosse scolato prima un paio di bottiglie di scotch. Ed anche i giornali sembrarono condividere la generale perplessità per questa curiosa operazione anglo-meneghina. Riporto qui il commento che scrisse Ugo Buzzolan su "La Stampa" del 7 dicembre (data dell'ultima puntata), come estrema sintesi del comune sentire: "Non era più semplice, più logico, e forse più economico, incaricare Giuseppe D'Agata di scrivere un copione originale considerato che egli è l'autore de "Il segno del comando? [...] ho l'impressione che la ricerca di un'atmosfera giallo-lombarda da parte dell'attento regista Alberto Sironi [...] abbia nociuto non poco al ritmo, troppo lento, e alla suspense, troppo scarsa. Non è che si pretendano ogni volta i gialli con le porte che cigolano e con i cadaveri che rotolano fuori dall'armadio, però...". Però, potremmo aggiungere noi, che barba questo nuovo giallo "neorealista"!

Alla fine, il Durbridge "alla Scerbanenco" finì per risultare un piatto indigesto per ogni palato. Per rispondere alla domanda che ci ponevamo all'inizio, possiamo ipotizzare che probabilmente "Poco a poco" ebbe la sfortuna di essere prodotto in un momento di avvicendamento in Rai, con ancora qualche vecchio dirigente che cercava di puntare su un nome sicuro, come appunto quello dello scrittore inglese che nel quindicennio precedente aveva assicurato grandi ascolti e altissimi indici di gradimento, e i nuovi che invece tendevano ad un modo più italiano e più cinematografico (secondo loro) di raccontare le storie, e il caso volle che proprio questo ultimo lavoro di Durbridge abbia finito per fare nel modo peggiore da trait d'union tra i due concetti, finendo per non essere più, come suol dirsi, né carne né pesce.

Fu forse questo a convincere definitivamente la Rai che il tempo per quel tipo di storie era ormai tramontato? Forse no, ma è un fatto che sono trascorsi ormai oltre trent'anni dal quel 1980, e mai più il nome di Durbridge è apparso sugli schermi italiani. Oggi la memoria dei vari "Melissa", "Harry Brent", ecc. è affidata alle raccolte in cofanetti DVD di Raitrade o della Fabbri, o al massimo a qualche riproposta notturna sui canali tematici del digitale terrestre, che si offrono all'occhio inumidito dalla nostalgia di qualche vecchio appassionato, o allo sguardo distratto di qualche nottambulo ventenne o trentenne che, abituato alla velocità delle moderne fictions poliziesche, si chiederà magari cosa ci trovassero mamma e papà di tanto emozionante in quei noiosi ed interminabili polpettoni di tanti anni fa. E poi con una spallucciata cambierà canale.


Prima di concludere questa mia lunga disamina, ritengo sia utile includere l'elenco completo (corredato da alcune informazioni accessorie) delle serie televisive firmate da Durbridge tra gli anni '50 e '70, perché tutti possano rendersi conto di quanti scripts la Rai avrebbe avuto ancora a disposizione, pronti per essere trasposti in una versione italiana che non c'è mai stata e mai ci sarà.
(Da questa lista sono stati esclusi "A casa una sera" e "Poco a poco", perché tratti non da serie TV ma da drammi teatrali.)

1952 The Broken Horseshoe (inedita)
1952 Operation Diplomat (inedita)
1953 The Teckman Biography (inedita)
1955 Portrait of Alison (inedita)
1956 My Friend Charles (inedita)
1956 The Other Man (Lungo il fiume e sull'acqua - 1973)
1957 A Time Of Day (Paura per Janet - 1964)
1959 The Scarf (La sciarpa - 1964)
1960 The World Of Tim Frazer (Traffico d'armi nel golfo - 1977)
1960 The World Of Tim Frazer: The Salinger Affair (inedita)
1960 The World Of Tim Frazer: The Mellin Forrest Mystery (inedita)
1963 The Desperate People (inedita)
1964 Melissa (Melissa - 1966)
1965 A Man Called Harry Brent (Un certo Harry Brent - 1970)
1966 A Game Of Murder (Giocando a golf, una mattina - 1969)
1966 Bat Out Of Hell (Come un uragano - 1971)
1971 The Passenger (inedita)
1975 The Doll (Dimenticare Lisa - 1976)
1979 Breakaway (inedita)

Dalle prime cinque miniserie tv furono tratte altrettante riduzioni cinematografiche, di cui solo le ultime due, "Portrait of Alison" e "My Friend Charles" risultano uscite anche in Italia, rispettivamente nel 1955 e nel 1957, coi titoli "Il segno del pericolo" e "Il cerchio rosso del delitto". Di nessuna delle due si ha notizia di edizioni in VHS o DVD.

Inoltre voglio ricordare a chi fosse eventualmente interessato a recuperarli, che alcuni degli sceneggiati inediti in Italia di Durbridge hanno visto nel nostro paese almeno tradotti i romanzi che ne erano stati tratti a suo tempo. Nell'ordine, "Portrait of Alison", con il titolo "Ritratto di Alison", pubblicato nel Giallo Longanesi n.135 del 2 Ottobre 1974; "My Friend Charles", col titolo "...dai nemici mi guardo io", ripubblicato nei Classici del Giallo Mondadori n.1203 del 25 Settembre 2008; "The Desperate People", col titolo "I disperati", pubblicato nel Giallo Mondadori n.965 del 30 Luglio 1967; infine "Breakaway", col titolo "Il prezzo del tradimento", pubblicato nel Giallo Mondadori n.1903 del 21 Luglio 1985. A parte "...dai nemici mi guardo io", che dovrebbe essere abbastanza facile da trovare, per gli altri non sarà una passeggiata, siete avvisati. Comunque, a chi volesse cimentarsi, buona caccia.

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